Meurtrière – Una performance di Philippe Grandrieux
MEUTRIÈRE
Una performance di Philippe Grandrieux
“La cosa è
insensata,
folle,
insostenibile,
isterica,
grottesca,
fobica,
pericolosa,
brutale,
divorante,
selvaggia,
sessuale,
imprevedibile,
stupefacente,
frenetica,
atroce,
inquieta,
spaventosa,
estatica,
desiderabile,
volgare,
perversa,
imbarazzante,
impudica,
nervosa,
oscena,
sacra,
sacrificata,
furiosa,
assassina.
Ma soprattutto.
La cosa è
senza intenzione.”
P.G.
Ti sei persa qualcosa, proprio prima dell’inizio. Lo sento, sai, che ti sei persa qualcosa, quello che è accaduto prima, che è cominciato senza di te. Eppure non sei in ritardo. Aspetti. Aspetti che cominci. Però hai la netta sensazione che tutto è cominciato senza di te, qualcosa accaduto in precedenza, che si è messo in moto nella notte dei tempi, molto prima della prima presentazione a New York l’anno scorso, ancora molto prima. E senti che ancora dura, inesprimibile a parole, e infatti non potresti descrivere nulla di questa sensazione. E questa cosa parla intorno a te, appare sui volti. Senti chiaramente che non sei la sola ad averne percezione, che accade qualcosa sui volti che aspettano. Questa bruciante “impazienza” somiglia tanto al desiderio e tu l’hai avvertita già sul treno, l’hai vista negli sguardi di quelli che, come te, viaggiavano da Parigi a Le Havre. E là, al faro di Le Havre, proprio prima di immergerti nel buio assoluto della scena, capisci che tutti quelli che sono là, tutti sanno di desiderare la stessa cosa, che non sono venuti per uno spettacolo, né al cinema, ma spinti dal desiderio imperioso di vivere questa cosa senza nome, una visione indefinibile, una turbolenza, un purgatorio. Poco a poco ti rendi conto che lo spazio così intenso e sacro che ti aspetti è proprio quello che non potresti mai vivere entrando in una sala di teatro o un cinema, dove tutto è approntato e potenziato nel cerimoniale di accesso.
Vi dicono di entrare uno a uno nel buio, uno dietro l’altro e di tenersi per mano. E così si può aspettare l’altro e prendergli la mano, cercare nel buio la mano di uno sconosciuto. Fin dall’inizio è tutto diverso, le indicazioni per la sicurezza, le uscite di emergenza nascoste, si deve spegnere tutto ciò che potrebbe essere acceso (cellulare, macchina fotografica…). All’infuori di te, tutto è da spegnere. Si entra nel buio come loro, i ciechi di Pieter Bruegel. In un attimo si affonda, si perde la vista, spariscono le proprie scorie, la propria vita, la propria marionetta civilizzata. Procedi nel buio brancolando, lasciandoti guidare dai corpi che hai davanti, anche loro guidati da uno spiraglio di luce. Lasci la presa, ed entri nel girotondo.
Ed eccoci là per smarrirci, come le anime del Purgatorio, vai dove è possibile andare, camminare, ai margini del grande palcoscenico. Non sei costretta ad andare lungo i muri, a dirigerti proprio lì. Nessuno ti fa violenza. In quel luogo non può essere che così. Sei tu che lo hai voluto, che lo decidi, e allora ti lasci andare, hai fiducia in questa “Cosa” che ti succede e che hai desiderato e presagito. Lo sentivo, lo sapevo, sono venuta per questo, per andare là, per andare dritto alla “Cosa”: in fondo per andare là dove non so più dove io sia, all’ombra del mondo, nello spazio irriconoscibile. Con voi sono venuta a perdermi, senza la minima cieca beatitudine, sono venuta a sprofondare, senza alcun intento, nei limbi. Quei limbi che testimoniano il genio di Philippe Grandrieux, visti i suoi film SOMBRE, UN LAC, LA VIE NOUVELLE e per ultimo WHITE EPILEPSY. Queste visioni di pura attrazione e insieme repulsione, questa notte profonda delle immagini e dei corpi in cui il cineasta, il poeta, l’artista ci immerge come in un bagno argenteo per rivelarci le forme tumultuose del suo mondo interiore, che è anche il nostro se lo vogliamo osservare a fondo.
La scheda tecnica indica che serve una “Black Box – né luce né suoni esterni penetrano lo spazio destinato alla performance. Dimensione al suolo minimo metri dieci per dieci, altezza quattro metri minimo, pareti nere, a terra un tappeto da danza nero. Gli spettatori entrano nello spazio riservato alla performance, accompagnati da una guida che li aiuta a disporsi nella penombra lungo i muri, in piedi o seduti sul pavimento. Solo una lastra di led rischiara il centro della scena. I danzatori sono presenti e la performance è già cominciata nel silenzio. Durante la performance si espanderà la musica.”
L’avevamo letto prima. Lo sapevamo. Non siamo presi in trappola e non si tratta di stregoneria. Il dispositivo è semplice, sobrio, stabilito in precedenza in ogni particolare, così come il nostro modo di essere presenti, la nostra postura, in piedi o seduti. Nessuno resta in piedi. Impossibile restare in piedi in questa atmosfera così intima, perché quattro corpi di donna sono già là, davanti a noi, distesi al suolo, che respirano con il volto rivolto a terra. A tutti sembra senza senso restare alzati quando lo spettacolo della vita si svolge ai nostri piedi. Vuoi rannicchiarti al più presto, ti vuoi rimpicciolire, come la luce, vuoi la penombra di te, in qualche modo diminuire la proiezione della tua ombra. Vuoi sparire, ma non che spariscano i tuoi occhi. Se almeno potessi infilarti sotto il nero tappeto e dietro il pannello nero contro il quale sei appoggiata! E non perché ti vergogni o ti vuoi nascondere. Hai invece il desiderio di astrarti. I tuoi vestiti invernali sono pesanti, se potessi sdraiarti anche tu nuda nel buio, sai che nessuno potrebbe vedere lì cosa diversa dalla luce. Ti sei messa a nudo non appena entrata in questo spazio radiografico che te lo impone con tanta chiarezza. E allora svanisci nel buio, sparisci più che puoi in te stessa. Accovacciata come un animale, accoccolata di volta in volta come il cacciatore che si rannicchia per terra, ti stropicci gli occhi per intravedere attraverso lo spiraglio della tua più profonda intimità le forme delle donne nude che sembrano sorgere dalla terra o nascere, o tornare alla vita dopo la morte. Tu, a terra, hai lasciato la traccia dei ciechi di Pieter Bruegel, eppure, come sempre, sei posseduta dalla pittura. Vedi distintamente il Giudizio Universale di Luca Signorelli, con precisione, proprio in quell’istante vedi la Resurrezione dei corpi.
Quelle forme di donne nude, che a tratti, nel silenzio, respirano più o meno forte, si animano lungo tutta la scena, quasi buia, vicinissime a te, a noi. Queste forme di donne nude, non sono più di donne nude, eppure sono proprio forme di donne nude, e respirano forte, gemono e si ergono da terra lentamente ma, allo stesso tempo, convulsamente, a lungo. E tutto questo va avanti per una mezz’ora. Tu pensi che quella resurrezione di forme di donne nude, che si sollevano in modo convulso, in tutto duri una mezz’ora. Anche se molto presto perdi la nozione del tempo, devi dire a quello che ti legge, che tu non ha visto, tu di’ che tutta la scena dura una trentina di minuti.
Ti rendi conto presto che la coreografia, questo articolarsi di forme, agisce per improvvisazione, e che pur tuttavia esiste un preciso disegno, delle regole di movimenti pensati e prescritti, delle pulsazioni, dei ritmi; ma il tempo appartiene interamente alla danza. Che non c’è la mano di un coreografo che firma dei movimenti. E neppure delle danzatrici che agiscono di testa loro, secondo l’ispirazione. È il corpo, solo lui, l’apprendista stregone della propria danza e ben presto della sua trance.
Come quelle quattro forme di donne nude che poco a poco si ergono sotto la selvaggia influenza del puro impulso, tu sei sotto il dominio del tuo sguardo che osserva fissamente. Ma non sei ipnotizzata, sei pienamente cosciente, più che mai presente e alla fine anche tu abbandonata a te stessa, sei tu che vedi davanti a te tutto il tuo essere primordiale che articola i suoi primi movimenti, come il cerbiatto appena uscito dalla madre che vacilla sulle sue gambe non ancora perfette.
Danza delle caverne, gestuale organica e parietale. A confronto delle donne tettoniche, tu sei siderea. Vedi sobbalzi, turbinio di capelli, splendore di denti, contorsioni, curve di corpi, un tornado di pelle e di instabilità e di scontri, un nulla, scosse sismiche, tele di maestri, rimbalzi, zampillii, ondate, percussioni, eruzioni e, talvolta, tutto insieme, l’orgasmo e l’oceano.
Ascolti il puro respiro, poi dei sospiri, dei ruggiti, grida, tosse, un urlo, mani che battono il corpo che prende ritmo e si anima, si rianima, e poi ancora uno sfregare, fluttuare, ondeggiare.
Meurtrièrefilm © Philippe Grandrieux
«Le mani non afferrano niente, le braccia non circondano. Sono appendici talvolta ingombranti, fuori da ogni taglio sociale e culturale, fuori da ogni sapere. Quello che “Meurtrière” domanda è un corpo che non sa, interamente sottomesso alla pulsazione che lo anima. È questa pulsazione costante che spinge in avanti ogni azione. Una volontà tenace che sorge dalla sola realtà dell’istinto […]. Il mondo di Meurtrière poco a poco comincia a insinuarsi in noi, ad occuparci».
Leggi questo negli appunti trasmessi da Philippe Grandrieux alle danzatrici, giorno dopo giorno, durante le prove di Meurtrière nei cinque giorni dell’allestimento.
In silenzio il mondo di Meurtrière è penetrato in te. È passata quasi un’ora e tu stai come davanti al mare, che puoi guardare per ore ed ore, tanto il mare cattura il tuo sguardo con la variazione infinita delle sue onde. Consacrazione sensuale, tu sei seduta lì sul pavimento, le spalle contro la parete, nel buio e nel silenzio a guardare queste quattro forme di donne nude che offrono al tuo sguardo la variegata gamma di movimenti inediti. Queste nude forme in ogni angolo, parti del corpo che non hai mai visto, perché oscurate, in chiaroscuro, nelle cavità o nelle sporgenze, parzialmente cancellate o ricomposte dall’irraggiamento laterale del solo spiraglio di luce. Al centro del tappeto nero la lastra di led apre una finestra di luminosità, non si può dire di luce. È una fessura, là dove il titolo della performance si evidenzia e acquista tutto il suo significato, MEURTRIERE, un rettangolo vuoto leggermente fosforescente, un luogo per irradiare, per esporsi, per rivelarsi come una lastra fotografica, un luogo preparato per quattro danzatrici sulle quali ogni raggio di luce, catturato al solo centro della scena, fa risaltare di volta in volta, secondo l’incidenza, una morfologia, un particolare del volto, una ciocca di capelli, l’ombra di un muscolo, un frammento di corpo scolpito e mai una donna tutta intera. Nient’altro che dei contorni indistinti, i frammenti della statua.
Meurtrièrefilm © Philippe Grandrieux
Per tutto il tempo percepisci che quelle forme nude sono soltanto donne. Mai nulla di osceno. È questo che ti sbalordisce ancora quando ascolti dei rantoli, quasi guaiti di una muta. Alla vista dell’incrociarsi, del mischiarsi di seni, di cosce, di sederi, di sessi. Anche quando le gambe sono aperte proprio davanti a te, da vicino o da lontano, tu sei di fronte a una apertura astratta, a una linea di fuga. Di una bellezza “estenuante”. Una assenza di provocazione sessuale, quando tutto è furiosamente voluttuoso, selvaggio, un gemito nella notte. Non lo avevi mai visto. Questo modo di muoversi, di gemere, di torcersi, di toccarsi, di torcersi senza isteria, questo modo di stare là, tutte e quattro magnificamente intere e offerte al gesto, alle onde, nel silenzio e nella quasi oscurità. Tu non hai mai visto questo modo di fermarsi, questi tempi sospesi in cui non accade niente. Assolutamente niente. Niente di più che te, e loro che respirano.
Arriva un momento unico adesso, unico per te, quando una di loro, una delle forme di donna viene a incollarsi contro di te, completamente contro, ansimante, quasi una gola di animale posata sul tuo ginocchio, le mammelle penzolanti come quelle della Lupa di Roma, lì, contro di te, senza muoversi. Dal momento in cui questa forma si è avvicinata a te e resta lì ad inspirare, a soffiare, senza odore anche dopo tutta questa ondata convulsa e burrascosa, da quel momento ti sembrano passate due ore, e tu hai il respiro mozzo e le lacrime agli occhi, sei pervasa da una emozione nuova. Non si sa bene perché. Questa forma, questa “Cosa” fatta come una donna, non si muove, non ti accarezza, non ti eccita, non ti provoca, non ti sollecita, non ti aggredisce. Lei ti abbandona. Abbandonata a se stessa lei ti abbandona. Resta almeno un quarto d’ora contro di te senza un solo movimento. Tu sei accucciata con lei “senza intenzione”. Proprio “senza intenzione”. Lo avresti potuto immaginare prima? Che sia possibile arrivare a questo ed essere puramente e semplicemente “senza intenzione” e quanto questo sia sconvolgente? Non ti manca più nulla. Tu sei agìta senza essere stata manipolata. E l’altra ha agito su di te senza far nulla, e neppure tu hai fatto alcunché. Tu non muori dalla voglia di fare altro da quanto stai facendo e vivendo lì, salvo forse prolungare la durata di quel corpo a corpo senza intenzione. L’una, l’altra, non ci siamo mosse di uno iota. I nostri capelli, i nostri respiri mischiati. Tu hai il cuore in gola. Nel tuo intimo, sulla tua scala Ricther, è il big bang, l’istante iniziale.
Ciò che sconvolge è tornare all’istante iniziale della visione.
Sotto l’impulso di una di loro il movimento riprende. E allora tutte si rialzano, ritornano in verticale. Sotto i tuoi occhi le creature sorgono dalla creta sul tornio di Pigmalione il vasaio. Non ancora asciugate, quelle forme di donna si fanno e disfano nella loro nudità, quattro punti cardinali, belle, autentiche e crude, dal viso irriconoscibile. Hanno agito quindi intensamente, muovendosi o restando immobili, durando più di due ore nella improvvisazione orchestrata dei loro agili e liberi istinti.
È allora che la musica arriva a lacerare lo spazio. Il risorgere del suono dopo tutto questo silenzio, dopo il solo suono dei corpi, per te e per tutti coloro che trasalgono intorno a te, è di una potenza straordinaria. Ti senti vibrare le corde della chitarra nella testa. Tu che sei rimasta per così tanto tempo immersa nel silenzio ora i bassi della chitarra li senti all’interno del tuo corpo. Il tuo sangue affluisce. La musica a tutto volume, così giusta, originale, prodigiosa, lancinante, la musica elettronica rianima tutto, ci accende, eccita, libera improvvisamente lo spazio e la danza. L’orizzonte, essenzialmente oscuro, d’improvviso si illumina.
E tuttavia la lastra di luce, al centro, non cambia di intensità. È la tua percezione che bruscamente trasforma ogni cosa. Questi bassi profondi, che vibrano sul suolo e lungo i muri, si propagano in folgorazioni, in lampi, in grazia.
E poi non ti accorgi quando tutto si ferma. E se qualcuno te lo chiede, non sai dire quando è finito. È senza una fine, senza applausi, senza nulla che somigli a ciò che avviene nella Società dello Spettacolo. Sei passata al di là dello specchio, hai attraversato le pareti del mondo visibile, il muro del suono. Sei nella quarta dimensione? Hai questa sensazione della 3 o della 4D, del terreno estremo, di forme aguzze venute a te e ti penetrano arrivando alla tua retina. All’uscita la luce ti acceca. Non c’è stata la protezione video degli effetti speciali, dei trucchi, delle olografie. Null’altro che la vita in azione in una penombra attraversata da un fascio luminoso, nient’altro che una visione a occhio nudo. Ed è tutto finito sulla scena. Ma non si perde in te la sua memoria, questa pienezza, questo sorgere di donne nude, questi corpo a corpo ai confini del mondo visibile. Tu non ne esci. Questa performance di due ore e trenta, oscura e incredibile, in seguito, costantemente, MEURTRIERE tornerà alla tua vista.
Manuela Morgaine
Cineasta e scrittrice
www.foudre-lefilm.com
Traduzione dal francese di Nidia Natalini,
si ringrazia Artdigiland per la gentile concessione del testo.
MEURTRIÈRE di Philippe Grandrieux
Performance presentata in anteprima al Whitney Museum di American Art a New York il 18 ottobre 2013 nell’ambito del Festival Walls and Bridges organizzato dalla Villa Gillet.
E poi il 29 gennaio 2014 al Faro, CNN dell’Havre Haute-Normandie nell’ambito del Festival Farenheit.
Con Emilia Giudicelli, Vilma Pitrinaite, Hélène Rocheteau, Francesca Ziviani.
Produzione Epileptic con l’Aide du Phare, CCN dell’Havre Haute-Normandie.
Musique Ferdinand Grandrieux.